L’erba dell’oblio

Vi sono altre creature divine o fantastiche che risiedono nei boschi? Può darsi. Una leggenda nocese vuole l’esistenza di una misteriosa erba, detta èrve du sscirre  (erba dell’oblio), che procura in chi la tocchi una sorta di smarrimento tale da renderlo incapace di ritrovare la via del ritorno.

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Pasqua e dintorni

Nei tempi andati la vita paesana era scandita dalle feste e ricorrenze religiose, tenterò di ricordare la festa religiosa centrale della religione cattolica a Noci con la ardita presunzione di rammentare come io l’ho vissuta.

Comincio con a pascarédde: non pensate alla “pasquetta”, cari vacanzieri del lunedì; è l’Epifania. Perché questo nome?

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A Cannelóre

Il mese più breve dell’anno si apre con una ricorrenza particolare: la Candelora, che secondo la tradizione cattolica cade il 2 febbraio. Le usanze e le storie legate alla Candelora sono diverse e curiose. Hanno un’origine pagana e cristiana e si sono tramandate nei secoli in tutta Italia, con tratti comuni da Nord a Sud.

Anche Noci ha le sue tradizioni. Cominceremo ad esaminarle a partire da un celebre proverbio:

“A Cannelóre, a vernète é fóre, ma ce l’arrive a ccunduè, n’at’e ttande tu n’a ‘cchjè.”

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Il Prugnolo

Come racconta Ginfrancesco Cassano in Narrazione dell’Origine e Progresso della Terra Delle Noci: “Si sgrava il terreno di tartufi neri e di una spezie di fonghi bianchi, detti prugnoli dell’apule che per la squisitezza ne corrono dalle più remote parti del Regno a mangiarli”. Che specie di fungo sarà mai il prugnolo? Il dialetto di Noci individua ben 21 varietà di funghi ma del prugnolo non c’è traccia, d’altra parte chi lo dice prugnolo: i paesani o i forestieri? Non è dato saperlo. Chiediamo aiuto alla “squisitezza” domandandoci: sarà nu fònge de pézze, nu gardidde, nu fònge de ringhe?

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A frasche e u mire. Miti, storia e civiltà del vino nel lessico dialettale nocese

Nei dialetti apulo-baresi, e nello specifico in quello di Noci, il lessico legato al vino presenta una ricchezza tale da non poter essere analizzato per interno in un articolo. Le voci e le locuzioni dialettali prese in esame, comunque, ci aiuteranno a riscoprire la cultura millenaria del vino, declinandone alcune delle innumerevoli articolazioni mitiche, storiche e folcloriche.

Cominciamo da due nomi comuni: vino e mire. Come giustifichiamo dal punto di vista etimologico questa differenza tra italiano e dialetto? Vino deriva dal latino vīnum ed è un termine panromanzo, passato al celtico insulare (irlandese fin, brittonico gwyn), al germanico (tedesco Wein) e, attraverso il germanico, persino al finnico (viina). Di contro, la voce dialettale mire deriva dalla locuzione latina merum [vīnum (mèro)], cioè ‘vino schietto’, ‘vino non annacquato’. Da merum, peraltro, proviene anche l’aggettivo italiano mero ‘puro’.

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L’Anima dei morti: morfologia di una festa

Il 2 novembre, giorno della commemorazione di tutti i fedeli defunti (in latino Commemoratio omnium fidelium defunctorum), lungi dall’essere soltanto una solennità del calendario liturgico romano, è attestato come giorno festivo anche nell’ambito della religiosità popolare, con alcune importanti differenze morfologiche rispetto alla liturgia della Chiesa latina. In tutta la penisola italiana si registrano esempi di festività in cui la sfera religiosa si innesta a un precedente sostrato magico e mitologico, imprimendo alla ricorrenza del giorno dei morti caratteri e rituali affatto interessanti. Tra tali occorrenze cercheremo di esaminare in che modo nella Puglia ascrivibile all’area geolinguistica apulo-barese si sia sviluppata la cosiddetta «Anima dei morti» e quali caratteri peculiari presenti ancora nelle poche, residue realtà in cui essa si articola.

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Tutte se disce, nudde se cònde

All credits Mirko Laviano
Fotografia di Mirko Laviano

«Conosci la storia di P. ?» – domanda lisciandosi il baffo tra medio e pollice

«No, ma ricordo di G. …» – dice dietro gli occhiali sporchi un altro

Era autunno e mentre eravamo riuniti, tra chi fumava troppo e chi non sopportava l’odore del fumo, spuntò un’idea ambiziosa: ricostruire una sorta di Antologia di Spoon River in lingua nocese. Il motivo non era ben chiaro e ci lasciammo ognuno in preda alle proprie storie. Sì, perché di storie vorremmo parlare, quelle sotterranee e brulicanti che fanno il mondo, la somma mai esatta di occhi ed ossa. Eppure c’è qualcosa che urta nella poesia di Edgar Lee Masters e, in generale, in tutta la poesia sepolcrale: un essere sempre, costantemente fuori tempo. La capacità tutta umana e provinciale di non sforzarsi di capire il sole su cui appoggiamo i piedi, quella fottuta incapacità di essere contemporanei. L’inutile dote di dare dignità alla morte.

«Di chi parlare? Da chi iniziare?»

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L’italiano non è mai stato così inglese

copertina

Qualche giorno fa ho firmato una petizione online, una delle poche volte che accetto di farlo. Sono tra i circa 60.000 italiani che con il proprio nome e cognome hanno aderito alla controffensiva nei confronti dell’invasione degli anglicismi nella lingua italiana. Quando alla fine della sottoscrizione Annamaria Testa, la promotrice dell’iniziativa dal titolo “Dillo in Italiano”, mi chiedeva una motivazione, ho lasciato, potevo farlo, lo spazio bianco ed ora che mi sono pentita dell’omissione mi dilungo su questo blog dedicato al dialetto, che con la petizione condivide l’audace obiettivo di difendere un bene che le generazioni future meritano di conoscere.

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Pavelucce, ovvero il sonno

sonno

A Noci è quasi notte. Un vento freddo sibila tra i tre campanili. La fatica di un’intera giornata si raccoglie per scivolare lenta nel silenzio. In una casa ancora illuminata c’è qualcuno che, vinto dalla stanchezza, tra uno sbadiglio e l’altro pronuncia sommesso: «Me stè vvéne Pavelucce». Ossia, letteralmente, ‘sta arrivando Paoluccio’. In senso figurato, ‘ho molto sonno’.
Perché quel nome col suffisso vezzeggiativo sta lì a simboleggiare il sonno? Quale storia si nasconde dietro questa espressione? Procediamo per ordine.

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