L’italiano non è mai stato così inglese

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Qualche giorno fa ho firmato una petizione online, una delle poche volte che accetto di farlo. Sono tra i circa 60.000 italiani che con il proprio nome e cognome hanno aderito alla controffensiva nei confronti dell’invasione degli anglicismi nella lingua italiana. Quando alla fine della sottoscrizione Annamaria Testa, la promotrice dell’iniziativa dal titolo “Dillo in Italiano”, mi chiedeva una motivazione, ho lasciato, potevo farlo, lo spazio bianco ed ora che mi sono pentita dell’omissione mi dilungo su questo blog dedicato al dialetto, che con la petizione condivide l’audace obiettivo di difendere un bene che le generazioni future meritano di conoscere.

Ecco, cadere nella retorica tipica dei puristi o degli pseudo tali è un rischio, soprattutto poi in un periodo in cui gridare al complotto è uno degli sport più in voga. Questa cosa dell’inglese, infatti, è sfuggita di mano soprattutto agli organi di stampa e alle cariche istituzionali, alla politica delle varie spending review e dei verybello. Agli azzeccagarbugli di questo secolo che seminano incomprensione e distanze sociali. La lingua rischia di diventare un’antilingua, secondo una definizione di Calvino, un sistema che non adempie alla sua natura di aggregatore.

#dilloinitaliano perché

Davvero quello che avete nel weekend è un meeting? O un incontro face to face? E pensate che ormai sia un must stilare una to do list?

Un dubbio esiste davvero ed è più serio: la scelta di usare un anglicismo è frutto di una naturale contaminazione – di questi tempi sempre più frequente- tra le due culture o è piuttosto una sorta di tendenza, di “anglomania”, sintomo di poca stima del proprio paese e di pigrizia?

#dilloinitaliano perché

Facciamo chiarezza. L’innovazione è scritta nel Dna di qualsiasi lingua, per natura un sistema dinamico soggetto a pressioni interne ed esterne. Il neologismo è la norma, non l’eccezione. Non è una minaccia. In linguistica queste innovazioni si chiamano prestiti e l’italiano, come ogni lingua, ne ha accolti moltissimi perché a seconda delle esigenze sono stati efficaci per un’espressività maggiore o semplicemente per indicare oggetti di origine straniera importati in Italia. Sono prestiti di necessità. Questi possono poi rimanere invariati (élite, alcol, bar, mouse, jeans) oppure adattarsi al sistema fonomorfologico della lingua ospitante (piroetta, bistecca, manichino, cliccare, scannerizzare).

Altri prestiti sembrano però superflui, più inutili di altri e i linguisti li hanno chiamati prestiti di lusso, perché sono parole straniere che hanno già un corrispondente preciso in italiano. Perché infatti usare location e non luogo? Abstract al posto di estratto? Meeting e non riunione? Weekend e non fine settimana? Spending review al posto di revisione della spesa?

#dilloinitaliano perché

Siamo però nel dominio delle lingue e la questione non è mai così banale. Una volta che queste parole si infiltrano nella nostra esperienza a noi sembrano in qualche modo ancora neutre, non semanticamente troppo marcate. Così finiamo per addomesticarle, cioè le carichiamo di una sfumatura di significato per cui alla lunga ci sembrerà di non poter più usare il corrispettivo italiano. Avviene per feeling, per esempio, ormai intraducibile con sentimento, o trash, il cui concetto non sarebbe reso se usassimo spazzatura, l’aggettivo social che ovviamente è diverso da sociale e sexy più ‘forte’ di sensuale.

In linguistica si sa che le innovazioni (non tutte!) seguono la direzione del prestigio: culture considerate più influenti, autorevoli, colte, economicamente più forti sono quelle che più facilmente impongono i propri termini perché degne di essere imitate (è il caso dei grecismi diffusisi nel latino). Succede anche all’interno della stessa lingua fra i dialetti e lo standard, tra il parlato e lo scritto. Quel che è strano è che l’italiano, che è allora un abilissimo imitatore, si mantiene però ancora troppo basso in classifica per il livello di competenza in inglese rispetto ai concittadini europei.

Anche per le lingue qualcuno parla di darwnismo, di un’evoluzione che premia la più forte. In una prospettiva futuristica sarebbe quindi un’eresia pensare all’italiano come ad una specie di dialetto d’Europa?

Eppure una delle cose più belle delle lingue è che non si può predire la loro sorte. Non c’è un metodo scientifico per stabilire se moriranno, dove si diffonderanno e quando. Non esiste nemmeno il concetto di età media di una lingua. Ed è perché oltre ad inseguire la storia, le lingue danno voce alla singola volontà del parlante che a sua volta influenza un altro, e un altro.

Chi vuole può firmare la petizione sul sito Change.org e motivare la sua adesione. Oppure semplicemente può diffondere e condividere l’iniziativa, parlandone. In italiano.


mariav cs1Maria Vittoria D’Onghia

Sognava di fare l’astronauta. Adesso studia linguistica e lo stesso le sembra di sondare un universo di arcani misteri. Giornalista pubblicista, vive a Roma, spera che nel girone degli indecisi ci sia una libreria.

Un pensiero su “L’italiano non è mai stato così inglese

  1. La lingua pulsa, accetta e allontana, accoglie stranieri esuli e li naturalizza, è dialogo, ma stratificazioni di dialoghi. La lingua dei politici e della pubblicità, inglesizzante. La lingua dei mercati rionali, dialettizante. La lingua della quotidianità, italianizzante, per paura dell’errore in inglese e dello dell’infamante dialetto. A meno che non lo si trasformi in un vezzo!

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